Dall’8 novembre 2016 l’India opera una rivoluzione monetaria di portata mai vista per dimensione di popolazione e profondità della trasformazione indotta. Demonetizzando le banconote più grosse da 500 e 1000 Rs (rupie), il governo indiano tenta di reintegrare la gigantesca economia parallela, o nera, o più semplicemente arcaica, del paese nell’economia ufficiale. In una nazione in cui il 90% delle transazioni viene effettuata in liquidi, grandissima parte dell’attività sfugge alla conoscenza del governo centrale, e quindi alle statistiche, alle imposte e al finanziamento delle infrastrutture.
Proporzione delle transazioni in liquidi per paese (blu: in volume; rosso: in valore). Fonte: Bloomberg.
Segni premonitori
Non c’è niente di nuovo sul fatto che il governo centrale tenti di obbligare la popolazione a dichiarare le proprie ricchezze. Tra il 1951 e il 1997, ad esempio, erano stati lanciati non meno di dieci progetti di amnistia, incitando i cittadini a dichiarare il loro reddito non ufficiale in cambio di un semplice pagamento maggiorato delle tasse[1].
Quando Narendra Modi è salito al potere il 26 maggio 2014, il programma parlava di modernizzazione del paese secondo i principi neoliberali di privatizzazione e di deregolamentazione. Ma da allora il mondo ha cambiato tono. In India, come ovunque, si parla ormai più di investimenti nelle infrastrutture, di keynesianismo e di fiscalità che di alleggerimento monetario e di indebitamento. È così che nel novembre 2015, Modi ha cominciato a prevedere una nuova forma di modernizzazione fondata su un’ambiziosa riforma fiscale (JAM[2]).
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