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Il numero mensile del Laboratorio europeo di Anticipazione Politica (LEAP) - 15 Giu 2017

2019/Brexit: verso il reintegro del nuovo Regno Unito in una nuova Europa

I nostri cari lettori non saranno rimasti sorpresi dal risultato delle elezioni anticipate di Theresa May. Non solo avevamo previsto una sconfitta della May, malgrado i sondaggi a favore; nel caso della Grecia e del Regno Unito continuiamo però a ripetere che non ci sarà un’uscita dall’Unione ma solo alcuni sconvolgimenti per una ridefinizione… nella buona e nella cattiva sorte.

Se la crisi greca ha dimostrato che andava cambiata l’Europa, la Brexit ha aperto a questa possibilità. Per un anno è stato difficile sapere che cosa ci riserbasse il destino: se i britannici (portando ad una nuova alleanza delle nazioni) o i continentali (principi unionisti che in un modo o nell’altro hanno ripreso il controllo delle istituzioni).

Non è il secondo voto britannico a «cambiare le carte in tavola», bensì, come abbiamo visto il mese scorso, il triplice voto austro-franco-olandese che segna la fedeltà dei continentali ai principi di destino comune… è vero che i continentali, rispetto agli isolani, sanno che le guerre europee hanno sempre luogo «da loro».

Questa espressione democratica continentale segna però il fallimento dei britannici lasciando il Regno Unito sul ciglio della strada a guardare il treno passare. E la nuova priorità del Regno Unito è presto detta: «Come riallacciarci ad un continente che non ci è venuto incontro… senza perdere la faccia… e salvando la nostra unione?»

L’elezione anticipata di Theresa May favorisce tali obiettivi. Vedremo come – anche se il Regno Unito deve ormai far fronte all’avidità in particolare degli ambienti finanziari – auspicare una Brexit hard per recuperare al massimo le attività europee della City[1].

Se però tutti giocano in modo intelligente, questa nuova priorità può portare il continente ad una positiva tappa di reinvenzione:

. dall’alto, ovvero consentendo l’integrazione di Islanda, Norvegia e Liechtenstein in uno scenario comunitario rinnovato;

. e, speriamo, dal basso, ovvero seguendo orientamenti democraticamente approvati dai cittadini europei.

Un’elezione anticipata sotto forma di secondo referendum sull’Europa

L’8 giugno i britannici hanno eletto un nuovo Parlamento la cui maggioranza sfugge al primo ministro Theresa May e al suo partito conservatore. Per formare un governo a maggioranza assoluta ci vorrebbero dieci voti in più, che essa deve andare a cercare in una rischiosa coalizione con il partito unionista dell’Irlanda del Nord (DUP). Rischiosa perché il programma del DUP è lungi dall’avere l’unanimità all’interno del partito Tory: ultra-conservatore, anti-aborto, omofobo, contro qualsiasi referendum irlandese… nello stesso tempo difende una linea ultraliberale contraria a qualsiasi controllo doganale tra il nord e il sud dell’Irlanda, il che è incompatibile con l’hard Brexit sostenuta da Theresa May che, al contrario, comporta tali provvedimenti[2]. E rischiosa anche perché nella nuova configurazione del Parlamento britannico i conservatori sono i soli a difendere una linea di hard Brexit. Con tutti gli altri partiti un po’ confusi, essi sostengono la soft Brexit. Non possiamo fare a meno di notare che tali risultati rimettono in discussione il processo della Brexit, se non la Brexit stessa. Molto semplicemente anche perché il crollo di Theresa May nei sondaggi in occasione della breve campagna elettorale è dovuto al secondo referendum delle elezioni approvato dal popolo britannico più che a presunti «casini» fatti dal primo ministro.

Ma come ci è arrivata Theresa May? Lo scorso aprile, convinta dai sondaggi d’opinione a lei favorevoli, la May si è lanciata alla riconquista di «Westminster»[3] per avere il controllo di tutte le forze politiche del paese nell’ambito dei negoziati della Brexit. Approccio rafforzato poco tempo dopo, dall’inizio di maggio, dalle elezioni locali, le quali hanno premiato il partito conservatore escludendo in particolare l’UKIP e scartando a priori le pretese del partito laburista sotto la leadership di sinistra di Jeremy Corbyn[4]. Gli istituti di sondaggi britannici la davano vincitrice tra il 48% e il 50% dei voti[5].

Le strategie di Theresa May sono state molteplici:

– rafforzare la maggioranza parlamentare per avanzare su una linea di hard Brexit che riteneva essere in linea con l’opinione pubblica britannica durante il referendum dello scorso giugno e con l’effetto domino sperato sul continente; ma molto difficile da realizzare contro un Parlamento britannico perlopiù opposto a questa linea. A quel punto ha invitato gli elettori ad unirsi a lei per apportare un contributo importante al tavolo dei negoziati con Bruxelles su un progetto di cui non ha firmato neanche la prima lettera; questo però non è sufficiente a garantirle una vittoria;

– assicurarsi che durante il periodo dei negoziati, fino al maggio 2019, nulla ne rimetta in discussione la leadership sbarrando la strada alla crescente pressione dei laburisti, in particolare di Jeremy Corbyn. I laburisti non hanno approfittato del voto delle elezioni locali, con appena il 30% di partecipanti, facendone le spese con i due attentati compiuti alla vigilia delle elezioni, ma Theresa May ha dimenticato di non essere soltanto il ministro della Brexit ma anche la leader di un paese la cui austerità grava sui cittadini;

– dare una battuta d’arresto alle centripete velleità di regioni come Scozia o Irlanda del Nord. Su quest’ultimo punto, se le forze centripete in questione non risalgono al referendum del giugno 2016 sono comunque state rafforzate dalla Brexit. Sottolineiamo infatti che la Scozia, in particolare, ha rigettato la Brexit proponendo di ricorrere ad una consultazione referendaria per l’indipendenza. Nel gennaio 2017, mentre la Corte Suprema britannica ha costretto il governo a consultare il Parlamento sul ricorso all’articolo 50, nella stessa sentenza ha negato alle assemblee regionali ogni «diritto di veto sulla decisione del Regno Unito di lasciare l’Unione» (sentenza del 24/01/2017)[6], rafforzando le velleità di secessione.

Battuta d’arresto alle forze centripete all’interno dell’Unione del Regno

Sull’ultimo punto, è interessante notare come, malgrado tutto, il risultato delle elezioni convalidi tale strategia provocando una battuta d’arresto alle velleità indipendentiste in Gran Bretagna: in particolare alle pretese scozzesi.

Almeno da questo punto di vista i risultati sono chiari:

– duro colpo per il partito indipendentista scozzese, grande perdente di tale consultazione elettorale: perde 21 seggi[7]! Alex Salmon, campione dell’indipendenza scozzese, non viene rieletto, e Nicola Sturgeon si trova in una posizione delicata alla leadership del partito[8]. Alla luce dei risultati, non è nemmeno concepibile proporre un nuovo progetto di referendum scozzese.

– situazione analoga in Irlanda del Nord, dove il partito indipendentista perde tutti i seggi a vantaggio di Sinn Fein, ma è il partito unionista DUP ad arrivare in testa, e per formare il prossimo governo con il partito conservatore di Theresa May dovrebbe allearsi ai Tories[9].

Quanto al Galles, è il Partito Laburista a stravincere[10], il che esclude qualsiasi politica secessionista.

In un numero precedente abbiamo parlato della necessaria reinvenzione dei principi di cooperazione all’interno dell’Unione britannica in vista di un loro rafforzamento, che abbiamo messo in parallelo con lo stesso imperativo da parte dell’Unione Europea. Sembreremmo essere al centro di questa priorità: dopo le elezioni dell’8 giugno ci si può chiedere se alla fine le regioni britanniche (Scozia, Irlanda del Nord, Galles) hanno ancora la tendenza – e l’interesse – a difendere pretese indipendentiste nella nuova riconfigurazione delle forze parlamentari e nazionali. Il loro interesse non è forse quello di giocare la carta della comunità di interessi tra esse e con il potere centrale invece di opporsi a quest’ultimo i cui rappresentanti sono i soli capaci di sedere al tavolo dei negoziati? In questo modo esse si unirebbero al processo (politico del lobbying tanto caro ai britannici) con la garanzia che la via così aperta conduca ad una Brexit sostenibile.

Tanto più che ulteriore conseguenza di queste elezioni è la rimessa in discussione della linea di negoziati per una Brexit hard come è stata difesa da Theresa May.

Battuta d’arresto alle pretese degli «estremisti»[11]

L’altro risultato positivo di queste elezioni per Theresa May è che le consentono di giustificare un cambiamento di linea di negoziato passando da un progetto di hard Brexit a quello di una soft Brexit, ormai in linea con l’obiettivo cruciale per il Regno Unito di evitare di essere marginalizzato rispetto a un continente che non è venuto loro incontro.

Il grande sostenitore della Brexit, l’UKIP, è completamente tagliato fuori, non arraffando neanche un seggio con l’1,8% dei voti. Questo sorprendente risultato, a un anno dalla strepitosa vittoria al referendum, sottolinea il ruolo deleterio svolto da questo partito di cui ci si può chiedere se non sia servito a fare campagna Brexit che una parte dei Tories, tra cui Theresa May[12], non ha osato fare. Dopo la Brexit, questo «ingombrante» partner è stato assimilato dall’estrema destra dei Tories disinibiti – uno scivolamento verso l’estrema destra, che avrebbe fatto perdere dei voti alla sinistra, o a vantaggio di partiti minori, tra cui il DUP in Irlanda del Nord.

Come abbiamo visto, l’insieme delle fazioni politiche rappresentate all’interno del Parlamento britannico difende una linea di soft Brexit: laburisti (262 seggi), SNP (35), LibDem (12), Sinn Fein (7 seggi ma che non occuperà in segno di protesta),Verdi (1), il partito di sinistra del Galles (4 seggi)[13] e, in certa misura, anche il DUP, anche se anti-europeo (10), si iscrive in una linea che non sosterrebbe le conseguenze di una hard Brexit sulla libera circolazione tra il nord e il sud dell’Irlanda.

All’interno dello stesso partito conservatore le linee di negoziati risultano divise. Se il partito ha preso posizione sotto Theresa May sostenendo una linea dura, un’intera fazione del centro-destra del partito, che aveva fatto campagna per il remain, tra cui George Osborne (Theresa May è una «donna morta che cammina»)[14] o il direttore del gabinetto Gavin Barwell («dubbi tra i sostenitori del remain sull’approccio dei Tory nel lasciare l’Unione Europea»)[15], invita oggi a ritornare su una Brexit soft[16] o alle dimissioni di Theresa May.

Nell’opposizione, Nicola Sturgeon, leader del SNP, invita a un fronte comune dei partiti d’opposizione per chiedere la sospensione dei negoziati della Brexit[17], e i liberal-democratici sono inoltre pronti ad organizzare un secondo referendum (era d’altronde una promessa di campagna)[18]. E tra il Partito Laburista e il governo britannico sono già cominciati i negoziati per una soft Brexit[19].

Aumenta il rischio del «no deal»

L’apertura dei negoziati era attesa per il 19 giugno. Prima di allora, Theresa May doveva costituire un governo. I negoziati con il DUP sembrano essere complicati e di fatto la data potrebbe essere rinviata[20]. D’altronde non c’è la garanzia che il governo di Theresa May sarà sostenuta dal Parlamento.

Già si profilano soluzioni intermedie. Temporeggiare lasciando che Theresa May formi un primo governo per lanciare l’inizio dei negoziati e chiederne in seguito le dimissioni[21]. Le viene ancora conferita una certa legittimità mentre il popolo britannico sembra essersi schierato contro la politica di austerità condotta dalla hard Brexit.

Dall’altro lato del tavolo, per negoziare nessuno vuole un governo indebolito[22]. Anche se gran parte dei politici europei esprime la volontà di non ritardare l’inizio dei negoziati[23]. Tutti però concordano sul fatto che i negoziati saranno meno duri di quelli che avrebbero potuto essere imposti da un Primo ministro che sarebbe stata rafforzata da una maggioranza assoluta all’interno del Parlamento[24].

È quindi giusto chiedersi se ci stiamo avviando verso un semplice arresto della Brexit, imponendo un secondo referendum che sostenga il sentimento europeo dei britannici, soprattutto nei confronti di un’Europa rigenerata dal momentaneo allontanamento di un Regno Unito il cui ruolo sarebbe sempre stato dannoso. Il nostro team ritiene che questo scenario è possibile ma non incontra la nostra approvazione: in particolare, non viene soddisfatto il criterio «non perdere la faccia».

Dall’Unione allo Spazio: Dalla Brexit alla Crisi-exit?

Figura 1: Diagramma di Eulero che mostra le relazioni tra i vari accordi e le multinazionali europee. – Fonte Wikipedia

Come abbiamo già sottolineato, per non perdere la faccia, non è tanto la decisione della Brexit a dovere essere rimessa in discussione da queste elezioni, bensì il processo, le modalità, il «grado». La Brexit deve essere mantenuta perché favorisce le due sponde della Manica creando le condizioni del cambiamento che gli ultimi dieci anni della crisi hanno dimostrato essere indispensabile. Ma deve servire a:

. permettere la riforma del Regno Unito;

. permettere la riforma del continente;

. permettere la riforma delle relazioni tra il Regno Unito e il continente.

Forti dei risultati elettorali a cui hanno portato i sostenitori della soft Brexit, adesso si profilano ufficialmente vari scenari[25]:

– Un’uscita dal mercato unico dell’Unione ma non dall’Unione doganale europea nella quale si ritrovano Turchia, Principato di Monaco, Andorra e San Marino[26], secondo Günther Oettinger, commissario europeo, il quale vede nel mantenimento del Regno Unito nell’Unione doganale il vantaggio di non essere costretto a rinegoziare tutti gli accordi commerciali[27]. D’altronde, I negoziati attuali del governo di Theresa May e dell’opposizione vertono su tale questione[28]. Una tale soluzione, come abbiamo già visto, converrebbe anche al DUP, ma in compenso, in assenza di negoziati su argomenti come l’immigrazione, verrebbe rigettata dai partiti di sinistra. D’altronde, il gruppo «estremista» dell’UKIP rischia di opporsi…

– Non è da escludere lo scenario del «no deal», tenendo conto della durata dei negoziati, che non sono ancora cominciati. Se entro la data di scadenza (marzo 2019) non si raggiungesse un accordo, invece di uscire il Regno Unito resterebbe nell’Unione[29].

– Un nuovo referendum[30] (combinabile con la soluzione precedente) – si accettano scommesse: Scommettere contro la Brexit

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