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Il numero mensile del Laboratorio europeo di Anticipazione Politica (LEAP) - 15 Mar 2018

Europa 2018: L’Unione disattivata

Da molti mesi anticipiamo la ripresa del controllo politico da parte dei livelli nazionali nel mondo. Tale controllo si è imposto come una necessità legata all’incapacità strutturale dei livelli sovranazionali – pazientemente istituiti nel corso della seconda metà del XX secolo – di mettere in atto le necessarie riforme imposte dall’enorme riconfigurazione geopolitica mondiale e dalla trasformazione sociale indotta da Internet. Se, al contrario, questi livelli sovranazionali si sono rivelati essere un peso contribuendo ad aggravare più che a risolvere i problemi, è stato per via della loro illegittimità a governare: in un mondo in cui i meccanismi democratici, gli eserciti e le forze dell’ordine sono continuati ad essere ad appannaggio dei livelli nazionali, il vertice della governance è rimasto il livello nazionale.

Un livello nazionale, tuttavia, impigliato in una rete di accordi transnazionali fondati su un principio di diffidenza verso il politico che ha portato, in modo consensuale alla fine del XX secolo, alla relativa scomparsa del politico a vantaggio dell’economico che ha trascinato nei corridoi del potere miriadi di interessi privati anch’essi sovranazionali e, a tale titolo, altamente compatibili con il suddetto sistema sovranazionale.

Ma gli interessi privati sono molto spesso nell’interesse di tutti, del bene collettivo. E poiché questo intreccio ha impedito qualsiasi forte presa di decisione politica, le crisi hanno colpito in modo sempre più violento le società umane, società umane che, stupefatte, non hanno potuto fare altro che constatare l’impotenza dei leader ufficiali (eletti o meno, a seconda del paese) a reagire.

Da quando sono stati registrati i primi grandi shock sono passati dieci anni. Dieci anni nel corso dei quali per riprendere il controllo i nuovi livelli legittimi di governance hanno combattuto una battaglia epica con quei sistemi sovranazionali che alcuni di noi hanno condotto nell’orlo del precipizio. Ma nel 2018 quella che il nostro team constata e anticipa come grande tendenza dominante è che finché questi livelli «legittimi» di potere saranno di nuovo al comando, cambierà tutto molto, molto rapidamente. Al punto da ritenere che alla fine del 2018 il mondo non sarà più lo stesso.

Ripetiamo che questa tendenza è generale, rimettendo in discussione l’ONU, la NATO, l’OPEC, l’OMC, ecc., per come le abbiamo conosciute. Ma l’Unione è particolarmente emblematica di questo fenomeno. È su questo esempio concreto di livello sovranazionale, probabilmente il più integrato al mondo, che ci concentreremo su questo articolo, in un’anticipazione di «disattivazione» del livello integrato da parte degli Stati membri entro le elezioni del 2019.

Gli Stati Uniti d’Europa non ci saranno

Nell’ultimo numero, non abbiamo potuto fare a meno di esprimere tutto il nostro disappunto sulla ripresa di un «business as usual» del sistema di Bruxelles. Apparentemente non eravamo i soli. E nell’arco di un mese il prepotente ritorno di un sistema seppur fallimentare è stato seriamente compromesso. Elaboreremo questa analisi sulla base di alcuni esempi particolarmente impressionanti.

I nostri cari lettori conoscono il modo in cui anticipiamo il rilancio delle dinamiche europee nella zona euro. Ma sanno anche che secondo noi solo un Euroland fondato su un progetto di democratizzazione di tutta o parte della costruzione europea sia auspicabile e duraturo. È così che seguiamo con interesse il progetto di riforma della zona euro annunciato dal presidente francese Emmanuel Macron e fondato su tre semplici nozioni: budget più elevato, ministro delle finanze della zona euro e controllo democratico[1].

Per cominciare a concretizzarsi, questo progetto ha dovuto attendere le elezioni all’indomani della crisi post-elettorale tedesca. Ma questa «transizione» è andata troppo per le lunghe consegnando la riforma dell’Euroland nelle mani di una Commissione europea esclusivamente interessata ad assicurare la propria posizione in quello che sarebbe un processo di riforma fondato sull’Europa dei 19 e non sulla sua Europa, quella dei 28 (o dei 27). È così che il 6 dicembre la Commissione ha imposto la pubblicazione di un libro bianco di riforma puramente tecnocratica il cui «passo avanti più coraggioso» consisteva nella proposta di creare il posto di «ministro» europeo dell’economia e della finanza mantenendo inalterato il meccanismo democratico al Parlamento (rappresentando quindi i 27-28 anziché i 19)[2].

Alcune settimane più tardi, il suddetto Parlamento europeo votava contro le liste transeuropee[3], con l’inevitabile reazione protezionista degli interessi corporativi. Bisognava essere ingenui per immaginare che i rappresentanti nazionali dell’emiciclo europeo avrebbero accettato di far posto ai rappresentanti europei il cui chiaro valore aggiunto avrebbe messo in discussione la loro importanza. Il voto non è stato quindi una sorpresa… e non è nemmeno un motivo per fermare i partiti politici transeuropei nel prendere parte alle prossime elezioni europee: per presentarsi non hanno bisogno del consenso degli attuali capi del Parlamento europeo. Il segnale mandato da queste due reazioni di conservazione corporativa più che di visione trasformatrice hanno considerevolmente screditato il sistema di Bruxelles.

Nel frattempo, la Germania non è riuscita a comporre un governo in grado di operare con la Francia, in particolare sulla riforma della zona euro. Argomento difficile, tenendo conto delle resistenze sempre più forti all’interno della popolazione tedesca nel continuare a finanziare le disparità economiche interne all’Euroland; un affare politico quindi che spiega in parte il ritardo e il fatto che da questo punto di vista i posti chiave hanno finito per essere occupati dai membri SPD della Grande Coalizione[4]. Apparentemente i membri del CDU hanno preferito lasciare il lavoro sporco degli affari esteri e della finanza ai loro «oppositori». Non bisogna credere che gli hanno fatto un regalo…

Il motore franco-tedesco è sembrato quindi disponibile ad appoggiare una riforma della zona euro teoricamente auspicabile – ma non a costo di una perdita di sovranità degli europei sulla condotta degli affari monetari. Non è quindi un caso se nel momento stesso in cui la coppia franco-tedesca è sembrata pronta a muoversi, otto paesi dell’Europa settentrionale (Danimarca, Estonia, Finlandia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi e Svezia), compresi quindi paesi non membri della zona euro, hanno vanificato ogni speranza di riforma dell’euro sulla base di un meccanismo sovranazionale, pubblicando una dichiarazione comune dove è chiaramente scritto: «La decisione deve restare fermamente nelle mani degli Stati membri»[5]. La strategia sembra essere molto anti-eurodemocratica perché rifiutano l’idea di un controllo democratico del Parlamento europeo sulle politiche monetarie. Resta da sapere se sono d’accordo con il controllo democratico di un Parlamento della zona euro. C’è da dubitarne. In realtà abbiamo qui una terza reazione di difesa di interessi corporativi: dopo la Commissione europea contro una governance della zona euro al di fuori delle proprie mura e il Parlamento europeo contro le liste transnazionali, adesso gli Stati membri dell’Europa settentrionale contro la governance comune e democratizzata della zona euro. In tutti e tre i casi ad essere eliminati sono proprio i cittadini europei.

A loro discolpa, attualmente pesano i rischi sulle prossime elezioni europee in seguito alle quali anticipiamo da tempo la possibilità di un passaggio del Parlamento europeo nelle mani di forze molto euro-critico, obbligando di fatto gli Stati membri ad agire per evitare probabili shock politici sulla moneta comune (su questo punto torneremo più avanti).

Un altro grande settore di europeizzazione fortemente auspicabile, quello della difesa (che ci permetterebbe veramente di uscire dalla NATO) non può essere condotto senza una sufficiente legittimità politica del livello europeo. Questo esempio è ancora più emblematico di quello sulla moneta: come si fa a lasciare le chiavi della nostra difesa ad un’entità non politica e non democratica? Al momento la difesa europea resterà quindi ad appannaggio degli Stati membri che faranno appello alla Commissione europea non per recuperare la funzione ma per fare il suo lavoro: creare le condizioni per una maggiore coesione tra gli Stati membri; missione che negli ultimi anni ha compiuto molto male. Eppure, durante la conferenza di Sicurezza di Monaco M. Juncker ci ha provato, ma non c’è proprio riuscito![6]

Spesso scriviamo che la storia non ha un pulsante rewind e che non si torna mai indietro. Siamo tentati a pensare che questo tipo di decisione rappresenti un passo indietro, un ritorno al livello nazionale in materia di governance europea. Ma significherebbe dimenticare un po’ troppo velocemente che il sistema europeo, anche negli ultimi trent’anni, non è mai stato nient’altro che un sistema intergovernativo esclusivamente fondato sulla buona volontà degli Stati membri a prese di decisione comuni seguendo principi che hanno stabilito congiuntamente. Poiché la crisi degli ultimi dieci anni ha rivelato che le interazioni intergovernative associate al principio di unanimità hanno condotto ad un’enorme debolezza politica su tutti i piani, è stata la volontà degli Stati membri ad impegnarsi a questo gioco europeo ad essere compromessa, creando un fenomeno di polarizzazione tra un livello europeo che reclama pieni poteri per mandare avanti la baracca e livelli nazionali sempre più avidi nel riprendere il controllo del loro destino.

La strutturale disconnessione del livello europeo con i cittadini sta segnando la vittoria dell’unico vero livello di legittimità politica, il livello nazionale, trascinando con sé quel progetto di Stati Uniti d’Europa agognato dal sistema di Bruxelles reso folle dai suoi fallimenti e dalla mancanza di realismo. Nessun passo indietro quindi, bensì un ritorno alla realtà.

Figura 1 – Sondaggi europei: a sinistra sulle questioni economiche, a destra sulla crisi dei rifugiati. Fonte: Pew Research.

Verso una grande crisi del sistema di Bruxelles

Un forte indicatore dell’opera di disattivazione della Commissione europea risulta dall’impressionante serie di piccoli scandali che attualmente esplodono in questa istituzione. Vi prestiamo particolare attenzione perché è un’anticipazione che abbiamo in mente da qualche mese: una riedizione dello scandalo che ha colpito la Commissione Santer (decisamente un altro caso lussemburghese…) nel 1999[7] .

Dallo scorso settembre sono emersi (o riemersi) non meno di cinque piccoli scandali legati al presidente della Commissione Juncker[8], l’ex presidente della Commissione Barroso[9], due commissari europei, Kroes[10] e Avramopoulos[11] e il principale consigliere di Juncker, Selmayr[12], miracolosamente diventato segretario generale della Commissione – ovvero l’incarico più potente dell’intera struttura comunitaria – con un programma ultra-federalista… seppur con tono di democratismo. “Per quanto riguarda la questione Selmayr, i media utilizzano già il termine di «Selmayrgate». Forse il polverone verrà risollevato velocemente (oppure no), ma per l’intero sistema decisionale di Bruxelles i danni constatati devono sicuramente essere considerevoli, contribuendo a legittimare la ripresa del controllo da parte dei livelli nazionali.

In ogni caso, questi «casi» sostengono alla perfezione il programma di rilancio dell’Europa a livello nazionale nel momento in cui ci sono le prove – fornite dalla ripresa degli accordi di libero scambio «stile CETA» o dell’allargamento indiscriminato ai Balcani menzionati il mese scorso – che anche l’uscita di uno dei suoi membri più grandi, il Regno Unito, non arrivi a fare attuare una riforma sostanziale degli orientamenti e dei metodi dell’istituzione, fornendo così un vero motivo per volerla «uccidere».

Anche gli Stati Uniti di Trump si stanno muovendo per smantellare l’istituzione centrale europea, la quale, come abbiamo anticipato, probabilmente non sopravvivrebbe al crollo dell’asse transatlantico indotto dall’arrivo di Trump alla Casa Bianca. E infatti, l’annuncio dei dazi doganali sui prodotti europei che entrano in territorio americano ha costretto la Commissione stessa a rispondere con un aumento dei dazi di importazione di prodotti americani[13], con la totale negazione dei due principi più importanti della propria ideologia: asse transatlantico e libero scambio.

Uno dei temi che hanno messo in discussione in modo più diretto il modo di governance centralizzato dell’Unione, ovvero la gestione del flusso migratorio del 2016, è anch’esso in corso di ridefinizione nell’ambito della riforma degli accordi di Berlino che hanno retto questa crisi. Dublino II prenderà chiaramente atto della libertà di ciascuno Stato di definire le proprie quote di accoglienza in funzione dei vincoli sociali, economici e politici[14].

Tra scandali in corso e il tradimento da parte della stessa istituzione dei propri principi fondamentali, il centro dell’Unione sta fondendo.

Stati membri pronti a rendere inattiva l’Unione

Da diversi anni, nella battaglia che ha opposto il livello nazionale a quello europeo il motto è stato il seguente: il livello europeo è un baluardo contro i populismi nazionalisti, un bastione dei valori di pace, apertura, tolleranza e progresso umano contro la bestialità e la guerra insiti nel modello nazionale.

La realtà ha però cominciato a contraddire questa certezza, e l’evoluzione dalla vita politica al livello nazionale a cui abbiamo assistito negli ultimi anni non è poi così inquietante. Certo, le forze di estrema destra ottengono punteggi pari al 20% in molti paesi. Ma resiste pur sempre un’80% di opinioni favorevoli ai partiti reazionari e xenofobi… e questo malgrado gli enormi shock subiti dal continente da dieci anni. Notiamo d’altronde che il paese che registra i punteggi più alti di estrema destra non è né la Polonia, (25%) né l’Austria (25%), né la Francia (21%), né l’Ungheria (20%)… ma la ricchissima ed extra-europea Svizzera (27%)![15]

Figura 2 – Punteggio annuale delle estreme destre in Europa. Fonte: New York Times.

Francia e Paesi Bassi, entrambi annunciati come prossime vittime dell’ondata di estrema destra, non hanno ceduto. Quando i parlamenti si radicalizzano a destra, è nell’alleanza destra-estrema destra che i partiti di destra tradizionale si radicalizzano più dei cittadini. L’Italia fornisce un ottimo esempio di questa situazione, dove un centro-destra, Berlusconi, sceglie di tradire i valori del proprio partito alleandosi con una Lega di estrema-destra… tutto questo per ottenere il 14% dei voti. Certo, questi 14%, unendosi ai pochi 17% di Salvini (anche Marine Le Pen ha fatto meglio) creano un effetto ottico tale che nei media si legge e si sente continuamente di un presunto interesse degli italiani[16]. In realtà, gli italiani hanno votato con entusiasmo per il Movimento 5 Stelle (32%), un partito certamente euro-critico (ma non anti-europeo), giovane e innovativo, per niente xenofobo[17]… nonostante il fatto che l’Italia è stata tra i primi paesi colpiti dalla crisi dei migranti.

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