Dall’8 luglio scorso, la «parentesi Tsipras» che ha fatto tanto infuriare Unione Europea, Stati Uniti e tanti altri interessi, si è chiusa. Il vento di speranza e rinnovamento che è soffiato sul paese nel 2015, quando un uomo non proveniente da nessuna delle grande dinastie (Samaras, Mitsotakis, Papandreou, Karamanlis) è riuscito a porsi al vertice dello Stato greco con un programma di profonda riforma dell’oligarchia, ha avuto vita breve: volendo essere precisi, quattro mesi e diciotto giorni.
Quattro anni, quattro mesi e diciotto giorni a battersi contro le famiglie regnanti, l’esercito, la Chiesa, gli interessi economici del paese sicuramente, il tutto abbondantemente sostenuto da Unione Europea, Germania, FMI e Stati Uniti. Alexis Tsipras aveva ben poche possibilità di sopravvivere a tutto questo. A partire dal 2016, gran parte dei bracci di ferro e dei progetti di riforma si sono rivelati un fallimento: costretto a piegarsi alle esigenze della Troïka e non riuscendo a scindere chiesa e stato… ha dovuto accontentarsi, a mo’ di vittoria, dei matrimoni gay e dell’accordo Prespa sul nome della Macedonia, due progressi che hanno finito per radicalizzare contro di lui l’ala conservatrice dell’opinione, fornendo elementi interessanti alla campagna populista di Nuova Democrazia (in particolare sull’accordo Prespa). Alexis Tsipras ha gettato la spugna, preferendo convocare elezioni anticipate[1] piuttosto che continuare a ingoiare il rospo. Non si può fare l’impossibile…
Ed ecco l’affascinante Kyriakos Mitsotakis, rampollo di una delle «famiglie» leader della Grecia, con buona pace dei grandi interessi legati al paese. Ritorno al business as usual.
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