Sembra che la Brexit abbia dato il via al tanto atteso progetto di ridefinizione del funzionamento e degli obiettivi della macchina europea. Oggi però Bruxelles preferisce deridere le difficoltà del Regno Unito, e credendo di essere ormai insostituibile, si autorizza a riavviare a tutta velocità tutti i progetti in cantiere: la marea di accordi commerciali “stile CETA” (Giappone, Mercosur, e naturalmente Nuova Zelanda, Australia, ecc.) sfuggiti dalla mente dei cittadini e a solo nome di un’ideologia di “aperta globalizzazione” che fa scappare tutti, marcia forzata verso una rischiosissima integrazione dei Balcani che ignorano i popoli (non il benché minimo riferimento ad un qualsiasi processo democratico).[1] Il nostro team anticipa che questa «isteria» europea è un canto del cigno creatore, e allo stesso tempo annunciatore, della violenta battuta d’arresto che la prossima legislatura imporrà a partire dal 2019 all’istituzione centrale europea.
Polarizzazione dei modelli di relazioni commerciali all’interno dell’asse transatlantico
Come abbiamo potuto constatare al Forum di Davos, e più in generale nei recenti sviluppi delle relazioni internazionali, sulla scena transatlantica, più in particolare nel settore commerciale, si affrontano due modelli. Da un lato, il ritorno a una forma di protezionismo nazionale secondo un approccio unilaterale e, dall’altro, un’espansione liberale iscritta in un’azione di tipo multilaterale. Il primo relativo all’operato dell’amministrazione Trump, e, in certa misura, alle ambizioni britanniche nell’ambito della Brexit. Il secondo alle ambizioni delle istituzioni europee e, più in particolare, della Commissione dell’Unione che si autoproclama ultimo baluardo della resistenza liberoscambista.
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