Una delle grandi sfide del prossimo decennio saranno sicuramente le relazioni tra i grandi gruppi del digitale, a volte chiamati GAFAM (Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft) e gli Stati. Tali aziende stanno infatti assumendo grande importanza nell’economia mondiale diventando entità in grado di impressionare e competere con gli Stati. Il fatturato accumulato per il 2018 ha raggiunto i 645 miliardi di dollari, cifra vicina al PIL svizzero, con un utile netto di 130 miliardi di dollari.
Figura 1– quota di investimento in IA nel 2016 delle imprese e degli investimenti esteri per i tre continenti: USA/Europa/Asia. Fonte McKinsey, 2017
Tali gruppi investono ormai cifre enormi nell’intelligenza artificiale a livelli che gli Stati non possono certo seguire. Nel 2018, i colossi del digitale avrebbero quindi investito non meno di 100 miliardi di dollari in questi progetti[1]. Tenendo conto dell’importanza dei dati nell’economia del futuro, questo progresso rischia di porre gli Stati in una forte dipendenza verso questi gruppi.
Eppure, tali gruppi, di cui in una recente opera l’economista Mariana Mazzucato[2] ha dimostrato quanto devono alla ricerca pubblica, hanno forgiato questa potenza in gran parte sull’ottimizzazione fiscale e sui vuoti giuridici, in particolare quelli legati alla questione dei dati. Di fronte a questa nuova potenza economica, gli Stati sembrano aver preso coscienza della necessità di limitarla. Da questo punto di vista, il 2018 ha segnato una vera e propria svolta. Recentemente, nella lettera agli europei che ha segnato il suo ingresso alla campagna per le elezioni europee, Emmanuel Macron, il presidente francese, ha giustificato il «bisogno dell’Europa» con la necessità di «far fronte ai giganti del digitale»[3].
In questo articolo, valuteremo le possibilità di successo dei vari progetti di tassazione riguardanti, dal momento che la soluzione che alla fine verrà trovata la dirà lunga sui principi di governance sovranazionale del XXI secolo. La questione ha quindi una sua importanza…
I GAFAM di fronte alla sfiducia
Tra i GAFAM, Facebook è forse il gruppo che ha conosciuto maggiori difficoltà nel 2018. Dopo lo scandalo Cambridge Analytica, dove abbiamo scoperto che Facebook aveva dato accesso ai dati degli utenti ad una società britannica per conto dei gruppi elettorali di Donald Trump[4], un nuovo scandalo legato alla riservatezza ha colpito l’azienda alla fine dell’anno[5]. Questi punti deboli sono stati utilizzati dalle autorità americane per chiedere conto a Facebook, ma anche a Google e Twitter, sulla capacità di controllare la diffusione di false notizie e i tentativi di manipolazione della campagna presidenziale negli Stati Uniti nel 2016. I grandi leader di questi gruppi, tra cui Mark Zuckerberg, il proprietario di Facebook, hanno dovuto fare ammenda davanti al Senato[6] il quale ha criticato risposte «tardive e non coordinate». Recentemente, anche Elisabeth Warren, candidata alle presidenziali americane del 2020, se l’è presa con i GAFAM che parla di «smantellare»… e non è la sola[7]. Critiche simili sono emerse anche in Europa, in particolare in Francia dove Emmanuel Macron continua ad accusare i social network di essere la fonte dei problemi proponendo, inoltre, un’agenzia permanente europea «di difesa della democrazia» per controllare la diffusione di false notizie su queste reti[8]. Emerge quindi la volontà di controllare politicamente i contenuti e i metodi di tali GAFAM il cui modello è fondato proprio su una raccolta esauriente e non discriminante dei dati.
Nello stesso tempo, gli Stati hanno cominciato a reagire, timidamente sì ma con rara determinazione. All’inizio con l’ammenda record di 4,34 miliardi di euro inflitta a Google nel luglio 2018 da parte della Commissione europea per aver ostacolato la concorrenza con il sistema di sfruttamento Android[9]. Ammenda che fa subito seguito a quella già inflitta nel 2017 a Google (2,42 miliardi di euro)[10]. Nel 2018, Apple ha alla fine restituito 15 miliardi di euro all’Irlanda, malgrado il lungo rifiuto di Dublino, in conformità con la decisione di Bruxelles del 2016 di ritenere illegali i vantaggi fiscali concessi da questo paese all’azienda negli ultimi dieci anni[11].
Infine, nel gennaio 2019, nella sorpresa generale, 127 paesi si sono accordati affinché questi gruppi paghino entro il 2020 le tasse nei paesi dove effettivamente realizzano profitti. Sarà l’OCSE ad avanzare ai paesi del G20 delle proposte a riguardo[12]. L’obiettivo è di riuscire a realizzare un’imposta minima. Nel frattempo, alcuni paesi come Francia[13] o Spagna, hanno creato «tasse GAFAM» locali molto poco ambiziose ma che spianano la strada prima di scomparire una volta trovato l’accordo. Altri paesi, quali Austria o Italia, stanno pensando di fare lo stesso.
Sembra quindi che la tolleranza verso strategie aggressive di ottimizzazione fiscale stia volgendo al termine. Gli Stati Uniti intendono recuperare una parte dei tagli fiscali sulle società accordate nell’ambito del piano Trump e che occorre finanziare, mentre gli europei sono sempre alla ricerca dei finanziamenti per dinamizzare una crescita che resta disperatamente debole.
Modelli da seguire a livello globale, i GAFAM sono diventati vere pecore di cui tutti gli Stati o quasi vogliono ormai tenere il passo. Ma non è così facile. Perché si sono svegliati tardi e la controffensiva è relativamente debole e disordinata.
Un’importante capacità di resistenza
Dal punto di vista dell’imposizione di questi gruppi, è tuttora difficile stabilire che forma assumerà l’imposta minima a cui mira l’OCSE. Il margine di manovra è molto delicato perché il modello economico di alcuni paesi dipende dalla loro capacità ad attirare i GAFAM. In particolare è il caso dell’Irlanda la quale ha congelato qualsiasi possibilità di tassa europea[14] e potrebbe propendere per un accordo de minimis conservando i propri profitti in questo settore. Nel settembre 2017, il consiglio fiscale irlandese aveva previsto che una tassa europea sui GAFAM era un «pericolo più importante della Brexit per l’economia irlandese» e potrebbe costare fino a 4 miliardi di euro a bilancio del paese[15]. A queste condizioni, l’Irlanda ha respinto il progetto vincendo la causa. Di fronte all’OCSE potrebbe svolgere lo stesso ruolo in posizione di forza: la libera circolazione di capitali nell’Unione assicura un certo vantaggio a chi non sta al gioco.
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